Stati Uniti coast to coast: diario di un’avventura on the road

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In questa lunga e calda estate del 2012 abbiamo intrapreso un appassionante viaggio attraverso gli Stati Uniti d’America. Un attraversamento di questo grande paese da est verso ovest, da Philadelphia a Los Angeles, dalla Pennsilvania alla California, toccando quindici diversi Stati e percorrendo circa ottomila chilometri. Come gli antichi pionieri che cercavano fortuna migrando verso terre favolose attraverso l’ignoto, anche noi, con una comoda automobile al posto di un carro di legno, abbiamo percorso le strade americane attraverso le grandi città della costa orientale, le sterminate pianure del midwest, le montagne e i deserti dell’ovest fino alla meta situata sull’altro Oceano, l’immenso Pacifico.

Abbiamo tenuto aggiornato questo blog giorno per giorno, scrivendo e pubblicando alla sera ciò che avevamo ammirato durante la giornata, le persone che avevamo incontrato, le emozioni che avevamo provato. Non si tratta di una semplice cronaca, di una sterile elencazione di fatti e di luoghi, abbiamo cercato di rappresentare anche le sensazioni e i pensieri che si affollano nella tua mente quando vivi un’avventura, perché di questo si è trattato. Per leggere il diario dovete iniziare dal fondo, infatti, scrivendo e pubblicando ogni sera un nuovo capitolo, succede che l’ultimo giorno di viaggio è il primo della lista.

Per il calendario questo viaggio è durato un mese, dal 29 luglio al 29 agosto, ma per le nostre coscienze è stato ben più lungo: abbiamo attraversato 800 anni di storia, dai villaggi Anasazi della Mesa Verde in Colorado fino all’Indipendenza americana, alla guerra civile, al Vecchio West, ai giorni nostri, ma continueremo a viaggiare a lungo, perché i ricordi e le immagini di quest’avventura non ci lasceranno facilmente e forse ci accompagneranno per tutta la vita.

Buona lettura,
Andrea, Silvia, Dario

P.S. Scrivete i vostri commenti e se avete domande … non siate timidi 🙂

Lunedì 27 agosto, ULTIMO GIORNO: Los Angeles, Hollywood Universal Studios

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Mentre scrivo queste righe finali il rombo dell’aereo copre il tic tac della tastiera, è martedì 28 agosto, abbiamo iniziato il rientro in Italia e siamo in volo per Philadelphia. Cerco di raccogliere i miei pensieri e raccontare il nostro ultimo giorno di vacanza in terra americana.

Fin dall’inizio avevamo pensato di dedicare l’ultimo giorno negli States allo svago e al divertimento e così è stato, perché gli Universal Studios di Hollywood sono secondi solo a Disneyland! Come il celeberrimo parco delle meraviglie del papà di Topolino, anche gli Studios sono ricchi di attrazioni, spettacoli e divertimenti adrenalinici, tutto strettamente legato al mondo del cinema.

Il parco apre alle 9.30 e noi siamo davanti ai cancelli, con Dario in trepidante attesa. Il biglietto di ingresso è piuttosto caro, ottanta dollaroni a testa, ma per poter saltare le code se ne sborsano ben 149 e per accedere come VIP (trattamento personalizzato e visita in privato degli Studios) ben 269, così paghiamo i nostri 80 dollari con il sorriso sulle labbra!

L’attrazione più gettonata è senz’altro il tour degli Studios, un giro attraverso i set dei più celebri film hollywoodiani a bordo di un trenino, mentre una guida offre interessanti spiegazioni. Si assiste alla dimostrazione di effetti speciali veramente notevoli: automobili incendiate e lanciate in aria da potenti esplosioni, terremoti, piogge torrenziali e alluvioni… Per una dimostrazione molto efficace delle tecnologie 3D, il trenino viene catapultato nel bel mezzo di una foresta pluviale, attaccato da una coppia di T-Rex e infine salvato nientemeno che da King Kong!

Assistiamo ad alcuni spettacoli, tra cui Terminator e Shrek, entrambi in 3D, e saliamo sul rollercoaster che sfreccia all’interno di una piramide egizia, dove “La Mummia” ci insegue lanciandoci maledizioni. Il mio stomaco viene seriamente messo alla prova, ma non posso rinunciare alla grande novità di quest’anno: Transformers 4D. All’inizio ero diffidente ma Dario ha insistito e mi sono divertito.

Gli effetti speciali che qui si possono sperimentare sono veramente eccezionali e non sto esagerando quando dico che si viene letteralmente trascinati all’interno della scena. Si sale a bordo di un veicolo e si indossano gli occhiali 3D, dopodiché il veicolo inizia a muoverei lungo un percorso prestabilito. Se qualcuno ci potesse osservare dall’esterno vedrebbe il veicolo entrare successivamente in locali diversi, ciascuno dotato di uno schermo a 360 gradi, poi vedrebbe il veicolo agitarsi ripetutamente avanti, indietro, roteare su se stesso e poi… e poi sentirebbe tanti urli! Si, perché l’emozione è talmente forte che l’urlo viene fuori anche al più freddo e compassato. Quello che vede lo spettatore a bordo della macchinetta è un’altra cosa: Autobots e Decepticons se le danno di santa ragione, mentre tu, a bordo di un’automobile, sei trascinato in mezzo alla lotta, corri a perdifiato per le strade della città tra spruzzi d’acqua, vampate di calore e nuvole di fumo, vieni agganciato da un cavo d’acciaio che ti trascina verso l’alto e ti manda a sbattere contro le pareti dei grattacieli, per poi lanciarti nel vuoto e farti precipitare verso il suolo, ma fortunatamente Bubllebee (si chiama così?) ti afferra poco prima dello schianto. Alla fine, non paghi, aiutiamo Optimus Prime a sconfiggere Megatron, la Terra è salva.

Molto bella è ben fatta è anche la simulazione dedicata ai Simpson. Anche qui 3D a manetta e stomaco sottosopra. Io non ne posso più, Silvia si è arresa da un pezzo, Dario invece fa ancora avanti e si fa qualche giro da solo. Verso le quattro del pomeriggio fuggiamo, io ho una nausea persistente e un mal di testa che mi accompagnerà fino a sera, non sono più fatto per queste cose, largo ai giovani!

Tra Hollywood e Beverly Hills ci fermiamo per dare un’occhiata ad un intervento di Renzo Piano al LACMA, Los Angeles County Museum of Art, nulla di eccezionale, ma così intanto ci disintossichiamo. Beviamo qualcosa in un locale, seduti all’aperto, godendoci il finir della giornata: sono le sei, il sole si abbassa, i colori si intensificano, la vita è bella.

Quando rientriamo è quasi buio, i grattacieli di Downtown si sono accesi e riflettono gli ultimi raggi solari colorandosi delle tinte più diverse. Giunti in albergo prendiamo una pizza fatta in un take-away messicano molto poco invitante in quanto ad igiene, ma la pizza è ottima, poi andiamo in camera e ci organizziamo per la partenza di domani: prepariamo le valige, studiamo la rotta per l’aeroporto, cerchiamo di localizzare la sede di Alamo per riconsegnare l’auto. La vacanza è finita.

Domenica 26 agosto, dalla Valle della Morte a Los Angeles

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La sveglia suona alle sei perché vogliamo ammirare l’alba sulla Death Valley prima di partire per L.A., così facciamo una veloce colazione e usciamo. Abbiamo subito una bella sorpresa: la temperatura è di “soli” 93 gradi Fahrenheit (34 centigradi) e così scherzo in po’ su questo fatto con il tizio dell’albergo al momento del check-out, “Yes, it’s cool for us” mi dice.

Per carità, dire che è fresco è un’esagerazione, ma non si sta male fuori, il clima è estremamente secco e così i 34 gradi non danno fastidio, ma non andrei a fare un’escursione in salita o un giro in bicicletta per nulla al mondo. E pensare che a luglio da qui parte una di quelle competizioni per superuomini che arriva fino in cima al monte Whitney, la vetta più alta degli Stati Uniti continentali, a 4420 metri di altitudine: un dislivello di 4500 metri e una distanza di oltre 200 chilometri. Pazzesco!

I colori della Valle della Morte hanno una varietà incredibile, grazie alla massiccia presenza di minerali nelle sue rocce, gli stessi minerali che rendono non potabile l’acqua che sgorga dalle sue sorgenti, da cui il termine di “badwater”. Questi colori vengono esaltati dalle luci del mattino e della sera: il verde, il marrone, l’arancione, il giallo, combinati con l’azzurro intenso del cielo danno l’impressione di trovarsi di fronte ad un’enorme tavolozza.

A nord di Furnace Creek ci fermiamo ad ammirare un’area ricoperta di imponenti dune sabbiose, le cui creste illuminate dal sole nascente disegnano traiettorie perfette e proiettano ombre sulla sabbia formando improbabili scacchiere ricurve.

Il parco nazionale della Death Valley non si limita alla sola Valle della Morte propriamente detta, ma va ben oltre, abbracciando territori vasti, di struggente e aspra bellezza, sempre all’insegna dell’aridità e della policromia. Attraversiamo queste lande a bocca aperta, un po’ per gli sbadigli dovuti alla levataccia, ma soprattutto per le esclamazioni di stupore e ammirazione per la genialità con cui Madre Natura ha qui compiuto la sua opera.

Pian piano riprendiamo quota, valichiamo gli aridi e tetri monti e ci troviamo in vista della Sierra Nevada meridionale, che aggiriamo a sud. Le cittadine cominciano a susseguirsi con sempre maggiore frequenza e le strade si allargano e si fanno più trafficate, stiamo arrivando al cospetto della grande metropoli. Percorriamo carreggiate a sette corsie, svincoli dove sette-otto strade si incrociano passando sopra, sotto, a fianco, formando un gigantesco labirinto d’asfalto.

L’entrata in città come sempre presenta le sue criticità, ma con un po’ di attenzione riusciamo ad arrivare al Westin Bonaventure, un bellissimo hotel in piena downtown, costituito da tre diverse torri in vetro e acciaio collegate tra di loro alla base dalla lobby e da ponti e passaggi sopraelevati che ospitano bar, ristoranti, negozi e zone comuni.

Mangiamo un panino da Subway e facciamo una passeggiata in una downtown semi deserta (è domenica), fotografando i grattacieli svettanti nel cielo blu e le larghissime avenue. Andiamo di fronte alla bellissima e fantascientifica Concert Hall , progettata da Frank Gehry, dalle superfici d’acciaio tutte curve e di fronte al museo d’arte contemporanea.

Lentamente la giornata volge al termine , domani ultimo giorno di vacanza dedicato agli Universal Studios.

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Sabato 25 agosto, da Las Vegas alla Valle della Morte

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Death Valley National Park, ossia la Valle della Morte. Mai un nome è stato più esplicito e più adatto: una grande vallata racchiusa tra aspre montagne che sembrano quasi avere la funzione di impedire qualsiasi via di fuga al malcapitato viaggiatore che si trova ad attraversarla, una depressione posta 86 metri al di sotto del livello del mare, un deserto dove nei mesi più freschi dell’anno la temperatura non scende sotto i 27 gradi centigradi e dove, nelle ore più calde, il termometro può facilmente superare i 50 gradi.

Non avevo mai provato una sensazione simile, un caldo così intenso da far girare la testa, da far tremare le gambe. Avete mai fatto una sauna? Avete presente come brucia l’interno delle narici quando inspirate l’aria calda e secca? È la stessa sensazione che si prova camminando sotto il sole a Badwater, il punto di massima depressione della valle ed il più basso degli Stati Uniti.

Tutta la giornata è stata all’insegna del caldo secco e terribile del deserto americano. Fin dal primo mattino a Las Vegas si boccheggiava, siamo partiti in auto e ci siamo diretti verso ovest sulla I-95, una superstrada che attraversa lo sconvolgente stato del Nevada, terra di deserti, casinò e basi militari top-secret.

Correre lungo la I-95, una striscia d’asfalto proiettata attraverso il nulla, provoca una sensazione stranissima: fissato il cruise-control dell’auto sui 70 miglia orari, potresti bloccare il volante, in modo da far seguire al tuo mezzo una traiettoria rettilinea, e quindi metterti a dormire, sicuro che per miglia e miglia non dovrai rallentare né correggere la direzione.

Poi invece, improvvisamente, l’interstate passa attraverso un paesino, uno di quei centri abitati sperduti dove ti aspetteresti di incontrare un pazzo con la motosega che fa a pezzi tutti quanti. Invece è un normalissimo paesino americano, con il distributore di benzina, il motel e il RV Park! A bordo strada si vedono automezzi color cachi dalle fattezze più strane e ti dici: l’area 51 non è lontana. Dietro a una di queste montagne, l’esercito degli Stati Uniti starà provando qualche nuovo e terrificante ordigno di distruzione di massa.

In uno di questi paesi disperati, Amargosa Valley, viriamo verso sud e imbocchiamo la Route 393, che presto ci fa attraversare il confine con la California, il nostro ultimo Stato, il quindicesimo che tocchiamo nel corso di questo nostro viaggio dall’Atlantico al Pacifico.

Solitamente la California evoca nella mente paesaggi mitici fatti di spiagge e verdi vallate, ma oggi la musica non cambia rispetto all’aridissimo Nevada: clima torrido, paesaggio desolato e, a peggiorare la situazione, la strada inizia a scendere sempre più di quota, Las Vgas infatti era posta a circa 1200 metri sul livello del mare, mentre la Death Valley, il nostro punto di arrivo, è addirittura ad una quota negativa!

Il nostro alloggio si trova in un luogo chiamato Furnace Creek: un nome un programma. Siamo a circa 30-50 metri sotto il livello del mare e la temperatura è pazzesca: 115 gradi Fahrenheit, pari a quasi 47 gradi centigradi, con un vento caldo che ti soffia in faccia e ti scalda i vestiti al punto che ti sembra di essere all’interno di un forno (allegoria ben poco originale, mi rendo conto, ma efficace e soprattutto veritiera).

Saliamo a Zabriskie Point per ammirare il panorama sulla valle sottostante, veramente molto bello, e poi andiamo a rifocillarci al Furnace Creek Ranch, dove alloggiamo e dove vi sono un Caffè, una Steak House ed un Saloon.

Stiamo riparati nelle ore più calde e poi usciamo nuovamente per visitare Badwater, il punto più basso gli Stati Uniti, e per percorrere Artist Drive, una strada che si snoda attraverso montagne colorate dalla presenza di diversi minerali. Assistiamo allo spettacolo del tramonto ammirando il sole mentre scende dietro le montagne che si ergono scure a ovest della valle, accendendo i colori delle montagne orientali.

Il sole è tramontato e il cielo è ormai tenebroso e ricoperto di stelle, ma la temperatura non scende: abbiamo ancora 42 gradi e un vento caldo che ti soffia in faccia e ti scalda i vestiti, tanto da farti crede di essere chiuso in un forno.

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Venerdì 24 agosto, dal Grand Canyon a Las Vegas … da un estremo all’altro!

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Partiamo dal Grand Canyon Village verso le otto, la tappa odierna è piuttosto lunga, 460 chilometri ci separano dalla prossima meta, Las Vegas, la città più assurda del mondo!

Imbocchiamo la US-180 verso sud e procediamo fino a Williams, dove prendiamo la più veloce I-40 verso Kingman. A Seligman però usciamo dall’interstate per percorrere un bel tratto della Historic Route 66 fino a Kingman.

La US-66, detta anche The Mother Road, è una vecchia gloria: collega Chicago con Los Angeles attraversando gli Stati Uniti da nord-est a sud-ovest. In realtà non si tratta di un vero coast to coast, in quanto Chicago, punto di partenza della Route 66, è ben lontano dall’Atlantico, inoltre non è nemmeno la più antica nel suo genere, visto che la Lincoln, che abbiamo percorso a tratti nella parte iniziale del nostro viaggio, è stata realizzata prima della 66 e inoltre è stata la prima strada a collegare i due oceani negli anni venti, quando l’unico modo per andare da New York City a San Francisco era prendere il treno.

Nonostante tutte queste precisazioni, la Route 66 ha un fascino enorme per gli americani ed è stata recuperata per il turismo nostalgico degli appassionati di Kerouac, delle Harley Davidson ed in genere del West e della Frontiera, rispolverando vecchie stazioni di servizio, motel anni ’50, roadhouse e saloon che sembrano usciti da un film. Nel tratto che percorriamo noi notiamo anche tanto abbandono, segno inequivocabile del passare del tempo: oggi chi deve viaggiare in fretta sfreccia sulle velocissime Interstate, solo i turisti e i nostalgici della vecchia America percorrono questi territori.

Seligman sembra uscita da un vecchio film in bianco e nero, ogni angolo di stata trasuda di passato ed è un piacere attraversarla a passo d’uomo per ammirare le vecchie Cadillac scintillanti esposte di fronte ad un negozio come un trofeo.

Poco prima di Kingman ci fermiamo in una stazione di servizio degli anni cinquanta che è stata restaurata e trasformata in un museo, con una magnifica corvette cabrio rossa esposta sotto il porticato d’ingresso a fianco delle vecchie pompe di benzina, i cartelli segnalatori della US-66, delle sedie a dondolo e altre glorie del passato. All’interno, oltre all’immancabile negozio di souvenir, la riproduzione fedele di un pub degli anni cinquanta, con immagini a grandezza naturale di Elvis e Marilyn. Eravamo già stati qui nel 2003, in occasione del nostro primo viaggio negli States, quando avevamo percorso un itinerario ad anello in camper attraverso il southwest. Oggi vediamo che nulla è cambiato: la corvette è ancora al suo posto, così come Elvis e Marilyn. Noi invece siamo invecchiati di un decennio e nostro figlio, che allora era un orsacchiotto di tre anni e mezzo, ora è un ragazzo con i primi accenni di barba che guarda con sufficienza queste chincaglierie ammuffite.

Giunti a Kingman facciamo una sosta da McDonald dove ingurgitiamo grassi saturi e calorie a sproposito e riprendiamo la strada percorrendo la US-93 verso nord fino a Boulder e poi a Las Vegas.

L’entrata nelle metropoli è sempre difficile, ma con i mezzi a nostra disposizione è un gioco da ragazzi: il navigatore satellitare ci guida passo passo mentre Silvia, iPad alla mano, verifica istante per istante la nostra posizione e fa le pulci al navigatore. Io mi limito a guidare seguendo le istruzioni e presto siamo arrivati.

Il nostro hotel si chiama Circus Circus e il nome è tutto un programma: l’ingresso è un enorme tendone da circo e le dimensioni sono a dir poco gigantesche, basti solo dire che all’interno dell’albergo, oltre a distese interminabili di slot machine e sale da gioco, vi è un intero luna park con tanto di montagne russe!

Dopo esserci sistemati, andiamo a gironzolare per la città-albergo e Dario approfitta del luna park per prendersi qualche soddisfazione adatta alla sua età. Curiosiamo anche nella zona delle slot machine e dei tavoli da gioco, la tentazione di puntare qualcosa è forte: tutte le quelle luci sfavillanti e quella gente intenta a dilapidare i propri risparmi, fa sembrare il gioco una cosa normale, necessaria.

Ceniamo con pizza (buona) e Pepsi e quindi usciamo per ammirare lo spettacolo di Vegas by night. Passeggiare con il buio lungo il Las Vegas Boulevard, comunemente detto Strip, è veramente una cosa folle: in mezzo ad un deserto dove sopravvivere sarebbe già un successo, questi folli americani hanno costruito il tempio del divertimento più sfrenato, con una quantità di cattivo gusto talmente elevata da farlo elevare a originalità e stravaganza. Ma assieme alle riproduzioni fedeli del campanile di San Marco, del Ponte di Rialto e della Tour Eiffel, vi sono anche edifici contemporanei in vetro e acciaio veramente notevoli.

Ciò che più sconvolge la mente è l’idea di essere in mezzo ad un deserto dove, in base alle leggi naturali, le uniche forme di vita dovrebbero essere insetti, rettili e piccoli roditori. Ebbene qui invece all’uomo tutto è concesso: si può mangiare qualsiasi cosa, dal sushi ai frutti tropicali, si può sorseggiare un cocktail all’aperto immersi in una nuvola di aria condizionata, ci si può sposare con 100 dollari, cerimonia e festa di nozze comprese o, se si preferisce, con la stessa cifra ci si può portare in camera due ragazze (lungo lo strip ti danno dei “santini” con le immagini delle escort, basta scegliere e comporre un numero telefonico). Il tutto in un tripudio di luci, giochi d’acqua, fuochi d’artificio, musica, che stordiscono i sensi e ottenebrano la mente.

Siamo sfiniti, abbiamo percorso a piedi i quattro chilometri più folli del mondo e per tornare il albergo ci prendiamo un taxi. Domani si torna sulla terra, anzi, sotto terra, perché la Death Valley è al di sotto del livello del mare.

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Giovedì 23 agosto, Grand Canyon National Park

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Giornata dedicata all’esplorazione del parco. Le attività che si possono svolgere qui sono molto varie: si va dalle semplici passeggiate lungo l’orlo del canyon, la cosiddetta Rim Walk, alle escursioni più impegnative che scendono al suo interno, fino ai voli in aereo o in elicottero che consentono di ammirare dall’alto le fantastiche sculture plasmate dalla natura, alle discese del Colorado in gommone (sulle rapide o meno, ce n’è per tutti i gusti). In ogni caso, il presupposto necessario è la stabilita del tempo, cosa che purtroppo in questi giorni sembra proprio mancare. Da quanto appreso infatti, ultimamente il meteo nella zona del Grand Canyon è stato piuttosto bizzarro, con frequenti temporali e piogge anche intense.

Per oggi le previsioni parlano di una probabilità molto elevata (80%) di rovesci e temporali nel pomeriggio. In queste condizioni siamo costretti a rinunciare al nostro programma di discesa del canyon lungo il Bright Angel Trail, che avevamo saggiato per un breve tratto ieri pomeriggio. Si tratta infatti di un’escursione abbastanza faticosa che prevede un migliaio di metri di dislivello e la cui la parte più impegnativa (la risalita) sarebbe da affrontare nella seconda parte della giornata. Ripieghiamo allora per la più semplice Rim Walk, che dà pur sempre la possibilità di camminare ammirando senza sforzo i fantastici panorami del canyon.

Ad un certo punto della passeggiata udiamo un potente rombo. Sulle prime pensiamo ad un tuono, il cielo infatti si sta facendo minaccioso, la lunga durata del rumore ci fa poi pensare ad un aereo, ma non è neppure quello. Verso il lato opposto del canyon, il North Rim, un pezzo di montagna sta franando. La distanza è notevole, saranno almeno un paio di chilometri ed il fragore, amplificato dall’eco sulle mille pareti di roccia circostanti, è impressionante. Una grande colonna di polvere si solleva nell’aria. Emozionati, riusciamo a immortalare questo evento che per alcuni minuti ha turbato la calma imperturbabile di queste vallate.

Per il resto della giornata il tempo continua a variare: tratti soleggiati si alternano a momenti nuvolosi. Verso l’ora di pranzo inizia a piovere, ma non dura molto. Con il senno di poi, si sarebbe potuto tentare il Bright Angel Trail, ma lo avremmo fatto con mille patemi d’animo e quindi va bene così.

Verso sera il tempo migliora decisamente e così andiamo ad ammirare il tramonto sul Yavapi Point, un punto panoramico che consente di volgere lo sguardo in diverse direzioni e contemplare sia le rocce infuocate a est sia le montagne a ovest dietro alle quali sparirà lentamente il sole colorando di rosa il cielo e di viola le nuvole. Lo spettacolo è davvero meraviglioso, centinaia di persone attorno a noi lo ammirano in religioso silenzio e, per una volta, la folla non ci infastidisce per niente.

Rientrando verso il villaggio vediamo alcune macchine ferme a bordo strada, segno inequivocabile della presenza di animali. Ci fermiamo anche noi e, sorpresa, scorgiamo due grandi cervi maschi che stanno camminando lentamente tra gli alberi. Iniziano a misurarsi tra loro, corna contro corna, tentando di scacciare il rivale. Sembra quasi una scena preparata: due superstar che, invocate dalla folla, recitano la scena madre del film preferito dai loro fan. È tutto uno scattare di macchine fotografiche mentre i due animali, dopo aver stabilito la gerarchia, ricominciano a brucare, stavolta in due zone diverse

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Mercoledì 22 agosto, da Page al Grand Canyon National Park

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Ci alziamo con calma verso le otto, facciamo colazione nella cucina del nostro appartamento con pane tostato, burro e marmellata di more, caffè americano e succo di pesca e mango. Andiamo a salutare Tony (o Tom?) e a restituirgli le chiavi, quindi partiamo alla volta del Grand Canyon, South Rim.

Il tragitto è breve, meno di 200 chilometri, e lungo la strada ci fermiamo a curiosare in un mercatino Navajo. Ci sono begli oggetti di artigianato indiano: vasellame dipinto, collane e bracciali con turchesi, tappeti variopinti, frecce decorate e poi altri articoli di minor pregio e di dubbia provenienza. I prezzi sono piuttosto elevati, infatti non vedo molti turisti far compere, e poi resta sempre il dubbio sull’effettiva qualità e origine dei manufatti.

Arriviamo prima di mezzogiorno all’ingresso del parco nazionale del Grand canyon, dove esibiamo il nostro Pass, che ci dà il diritto di accedere a qualsiasi parco nazionale per un anno. Rispetto ai nostri precedenti viaggi negli USA, il Permesso ha cambiato nome, da “National Park Pass” al più lungo e incomprensibile “America the beautiful the National Parks and Federal Recreational Landscape Parks”. Inoltre il costo della tessera è passato da 50 a 80 dollari e quando la esibisci ti chiedono un documento di identità. Evidentemente si era diffusa la prassi di riutilizzare il Pass tra più persone e così il NPS è corso ai ripari.

Il cielo si sta coprendo, ma rimangono ancora pacchi squarci di sereno, decidiamo allora di iniziare subito a fare qualche sosta lungo il South Rim, l’orlo meridionale del canyon, in modo da poterne ammirare gli sconfinati panorami prima che l’eventuale maltempo ci guasti la festa.

L’emozione che provi quando ti trovi di fronte all’immensità della natura è sempre grande, anche se lo spettacolo l’avevi già visto. È quello che avviene anche a noi, certamente non la stessa emozione che provammo la prima volta che vedemmo il Grand Canyon, ma anche oggi, nove anni dopo il nostro primo viaggio negli Stati Uniti, abbiamo provato un brivido e ci siamo sentiti piccoli e insignificanti di fronte all’immensità.

Il Grand Canyon è la migliore rappresentazione concreta di ciò che noi chiamiamo “infinito”: qualcosa che si perde a vista d’occhio, che non puoi catturare con lo sguardo perché sembra non finire mai, ma non solo. Infinito è anche ciò che non è mai iniziato e mai finirà, infinito anche nel tempo quindi, e il Grand Canyon rappresenta efficacemente anche quest’altro concetto, perché un paesaggio che è stato scolpito in milioni di anni è la migliore rappresentazione possibile di eternità. Cosa sono gli ottant’anni della vita di un uomo rispetto ai milioni di anni di questo territorio? Cosa sono le poche migliaia di anni di storia dell’umanità rispetto ai milioni e milioni di anni durante i quali il Colorado ha scavato le rocce e le pianure fino a creare questo capolavoro? Immensità, eternità, infinito, niente è in grado di rappresentarli meglio della natura.

Mi piace perdermi in questi pensieri, come un novello Leopardi di fronte all’ermo colle, ma la moltitudine che ci sciama attorno non concilia la meditazione anzi, per dirla come Foscolo, ci “molcea la cura”. Troviamo il silenzio, la pace e ancora panorami infiniti percorrendo un tratto del Bright Angel Trail, il sentiero che dal Grand Canyon Village scende per millecinquecento metri fino in fondo al canyon, sul Colorado Rover. Dopo pochi minuti di marcia ci troviamo veramente soli, finalmente soli, quasi sospesi nel vuoto sopra l’infinito e l’eterno.

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Martedì 21 agosto, Page

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Page è una cittadina nata negli anni sessanta, al tempo della costruzione della grande diga sul Glen Canyon. La storia americana è ricca di avvenimenti del genere: c’è qualcosa da fare in un luogo abbandonato dal Signore e, come prima cosa, si costruisce una città, come fu al tempo dei pionieri e durante le varie corse all’oro.

Quando il governo americano decise la costruzione della diga, qui non c’era nulla. Non solo non esistevano città, ma nemmeno strade per arrivare in questo posto, né ponti per passare dall’altra parte del canyon. Le prime opere ad essere realizzate furono proprio queste, assieme ad una cittadina per alloggiare gli operai e le loro famiglie. Da questo primo insediamento fatto di case mobili prima e prefabbricati poi nacque Page. Ora il paese è pieno di ristoranti e hotel lussuosi, con tanto di campo da golf verdissimo in mezzo al deserto rossastro, ma il nucleo storico dei prefabbricati è ancora ben visibile e noi ci alloggiamo: il nostro motel infatti, Debbie’s Hide a Way, assieme a molti altri, sfrutta proprio questi vecchi prefabbricati. L’impressione iniziale è di essere finiti in una bidonville, ma queste casettine che sembrano fatte con le carte da gioco sono ben curate, hanno tutti i comfort tra cui, immancabile, il barbecue in giardino.

Oggi vogliamo rilassarci un po’, stiamo correndo ormai da 25 giorni, e così ci alziamo con calma, faccio in salto al supermercato Safeway e compro un po’ di derrate per la giornata (colazione e pranzo, per la cena si vedrà), facciamo colazione in ciabatte nel nostro appartamento e poi con calma usciamo. Facciamo un giretto e andiamo a vedere il panorama che si gode qua e là sulla diga, sul canyon e sul lago. L’idea iniziale, quando avevamo studiato il programma di viaggio, era di fare qui un po’ di spiaggia, ma la cosa è impensabile com queste temperature. L’ideale sarebbe noleggiare una barca e gironzolare per il lago, addentrandosi nei canyon laterali e rinfrescandosi con dei tuffi di tanto in tanto, ma i costi del noleggio sono proibitivi: 400 dollari più tasse per un giorno, 200 dollari per due ore, poi c’è la benzina, una fortuna da lasciare come cauzione… Optiamo per una crociera organizzata. Non sarà il massimo dell’avventura, ma abbiamo detto che doveva essere una giornata di relax giusto? E poi così non dovremo temere che la benzina finisca mentre siamo in un luogo remoto o che il maltempo ci sorprenda eccetera eccetera. Mi consolo così…

Pranziamo a casa com sandwich e insalata e poi, dato che nel nostro appartamento non c’è la copertura wifi, vado a leggere la posta elettronica e ad aggiornare il diario di viaggio nella lobby del motel. Lobby… posso definirla così? Si tratta del cortile di fronte all’ufficio di Tony (o Tom?). Per fortuna il cielo si è leggermente coperto di nubi, così almeno non devo stare sotto la canicola del dopopranzo, ma il caldo e il riflesso sullo schermo dell’iPad sono veramente fastidiosi.

La crociera parte alle 16.00 dal resort di Wahweap Marina. Il tempo è visibilmente peggiorato, il cielo è coperto e in lontananza di tanto in tanto dei lampi squarciano le nubi violacee. Confidando nell’esperienza del nostro Capitano, un signore canuto con i baffoni ed un’aria a metà strada tra il cowboy ed il lupo di mare, ci accomodiamo sul ponte superiore, Silvia ha portato per ogni evenienza pile e k-way. Si parte.

La gita è molto bella. Il Capitano conduce sapientemente il battello attraverso canyon così stretti che sembra impossibile poter girare il vascello per tornare indietro. Ognuno ha delle cuffiette per ascoltare, nella propria lingua, una voce narrante storia, geologia, e curiosità su queste terre. Mi piace in particolare il racconto della “Grande Marcia”, in cui viene detto chiaramente e senza peli sulla lingua quanto crudele e disumano sia stato il trattamento che il governo americano riservò al popolo dei Navajo. Kit Carson, dipinto come una specie di eroe nazionale, non fu altro che un macellaio che deportò l’intera popolazione Navajo, facendola camminare per 500 chilometri (da cui il nome di “Grande Marcia”) e quindi relegandola in prigionia. Fu solo dopo diversi anni che questo grande popolo riuscì ad affrancarsi e a tornare, ancora una volta a piedi, nelle proprie terre.

Grazie al Cielo il tempo tiene e torniamo sani e salvi alla Marina. Per cena avrei voluto accendere un bel barbecue in giardino, ma il tempo resta minaccioso e così andiamo alla Fiesta Mexicana, ristorante che fa parte di una catena gestita da messicani e con camerieri messicani, dove preparano porzioni mostruose di tacos e burritos, ma anche grill e insalate. L’errore più grande che si può fare in questi posti è di iniziare con l’antipasto: meglio ordinare una portata principale e basta, non rimane altro spazio, nemmeno per i più golosi.

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Lunedì 20 agosto, dalla Monument Valley al Lake Powell

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Ripartiamo verso ovest e con una tappa abbastanza breve di circa 200 chilometri, ci portiamo sulle rive del Lake Powell, uno dei principali luoghi di soggiorno per gli Americani dell’arido sud ovest. Il lago è nato negli anni sessanta con la costruzione della diga sul Glen Canyon ed il conseguente allagamento di quest’ultimo. Si tratta di un’opera imponente, la più grande diga degli Stati Uniti, la cui costruzione ha richiesto il lavoro di migliaia di persone e diversi decenni per la sua completa realizzazione. Fu infatti negli anni venti che per la prima volta si pensò alla realizzazione di quest’opera, ma solo nel 1963 la diga fu ultimata e si dovette attendere diversi anni prima che il lago si formasse del tutto.

Quest’opera consente di rifornire d’acqua gli Stati del sud ovest americano: Colorado, Utah, New Mexico, Arizona, Nevada, oltre a produrre quantità enormi di energia elettrica. Dal punto di vista turistico, inoltre, il lago costituisce un formidabile polo di attrazione per gli americani, che arrivano qui da ogni dove con i loro immensi motorhome e con le loro barche al traino. Effettivamente, questa incredibile striscia blu che si staglia sul panorama giallo verde e arancione delle pianure e montagne circostanti crea un effetto cromatico pazzesco. Specialmente al tramonto, quando tutti i colori diventano più intensi, ammirare il Lake Powell dall’alto di uno dei molti punti panoramici è veramente uno spettacolo fantastico.

Giunti in vista del lago, ci fermiamo per partecipare ad un’escursione guidata dai Navajo che conduce all’interno dell’Antelope Canyon. Non è possibile accedere per conto proprio a questa attrazione, perchè si trova in territorio indiano tre miglia fuori dalle strade asfaltate ed è raggiungibile solo con una corsa su piste sabbiose estremamente disagevoli. Gli indiani si fanno pagare caro: 40 dollari gli adulti e 20 i ragazzi per partecipare alle escursioni delle 11.00 e delle 12.00. Le ore centrali della giornata sono le uniche durante le quali il sole riesce a penetrare all’interno di questo strettissimo canyon e “accendere” i colori delle sue straordinarie pareti.

È impossibile descrivere a parole gli effetti che ne risultano: le pareti del canyon non sono diritte, ma seguono un andamento sinuoso sia in senso orizzontale che in verticale, inoltre sono striate per le diverse composizioni chimiche della roccia. L’effetto cromatico e i giochi di luce che ne derivano quando i raggi solari scendono attraverso la strettissima fenditura sono a dir poco sconvolgenti. Noi camminiamo sul fondo di questo canyon, circa 35 metri sotto la superficie della mesa soprastante, e attorno a noi si materializzano visioni oniriche: diavoli, lupi, fiammate, il tutto sapientemente evidenziato dalla nostra guida, Franklin, un giovane Navajo molto espansivo e alla mano.

Quando torniamo siamo letteralmente ricoperti di sabbia: sabbia sui vestiti, tra i capelli, sabbia finissima incollata alla pelle, persino in bocca. Andiamo da McDonald a mangiare e soprattutto a bere qualcosa di fresco, dopodiché andiamo a cercare il nostro motel, prenotato telefonicamente pochi giorni fa da Moab. Quando arriviamo non c’è nessuno e così andiamo in giro per la città, in macchina naturalmente per non fondere sotto il sole cocente (100 gradi Fahrenheit): visitiamo la diga, andiamo a gustarci il panorama su lago e sulla diga dall’alto di una collina, ci rechiamo a Wahweap Marina a prendere informazioni per le gite sul lago e per il noleggio di imbarcazioni.

Arriviamo alla lobby del motel dopo il tramonto, per fortuna troviamo il proprietario, Tony (o Tom?), che ci presenta il suo cane Buddy, ci consegna le chiavi del nostro appartamento e ci illustra le attrazioni del posto e i luoghi dove andare a fare la spesa o per cenare fuori. Anche se abbiamo un appartamento con tanto di cucina non abbiamo alcuna voglia di metterci a cucinare e così andiamo a mangiare da Big John’s Texas Barbecue che è proprio dietro il nostro alloggio ed è stato ricavato da un vecchio distributore di benzina. Si mangia sotto la grande tettoia che un tempo riparava le pompe di benzina e tutto viene rigorosamente cotto al barbecue. Un gruppo che suona musica country dal vivo (molto caratteristico!) allieta il nostro destinare.

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Domenica 19 agosto, Monument Valley … tra storia e leggenda

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Ci svegliamo verso le otto, sbaracchiamo la camera e partiamo subito. Percorriamo come ieri la 491 verso ovest che presto ci fa entrare nella terra degli indiani Ute, la Nazione Ute come di cono loro. Ci fermiamo appena entrati nella riserva per fare colazione e ci rendiamo conto di come in pochi chilometri sia cambiato il mondo, seppure in apparenza tutto appaia come prima. Il paesaggio è sempre quello, anche le case sembrano della medesima tipologia, nonostante un aspetto po’ più trascurato, i distributori di benzina sono i soliti e c’è anche qualche casinò. Quello che è cambiato sono le persone, qui sono tutti indiani: indiani al volante delle automobili, indiani dietro il banco dei negozi, indiani al distributore di benzina… Di americani bianchi nemmeno l’ombra, ma in fin dei conti cosa c’è di strano? Questa è la loro terra, dei loro antenati e nessuno più di loro avrebbe il diritto di abitarla.

Saremo anche in terra indiana, ma nel loro negozio troviamo solo il solito caffè-beverone, muffin e brioches piene di burro. Del mondo pellerossa tradizionale non è rimasto nulla.

Ripartiamo verso ovest e presto arriviamo nel punto chiamato Four Corners, intersezione dei confini di quattro Stati: Utah, Colorado, Arizona e New Mexico. I loro confini perfettamente rettilinei si incrociano ad angolo retto disegnando una croce, il centro della quale è il “superconfine” che separa i quattro Stati americani. Four Corners, i quattro angoli.

Ovviamente l’occasione era troppo ghiotta per farsela sfuggire e così su questo punto è stata posizionata una targa, attorno alla targa cartelli esplicativi, attorno a questi bancarelle di artigianato indiano e infine un casello per il pagamento di un biglietto di ingresso. Cinque dollari a testa per provare il brivido di essere contemporaneamente in quattro stati diversi e ognuno lo fa a modo proprio: chi si sdraia sopra il fatidico punto di intersezione, chi divarica gambe e braccia per “toccare” tutti i quattro stati, i più prolifici mettono un figlio diverso in ognuno dei quattro angoli e poi dicono loro di prendersi per mano (così ogni figlio è in uno Stato diverso, ma sono tutti a contatto), chi salta continuamente da uno stato all’altro correndo in cerchio attorno al punto centrale. Stiamo lì a guardare per un po’ e ognuno ha il suo modo particolare di divertirsi con questa originale caratteristica geopolitica. Noi decidiamo di portare un po’ di venezianitá nel nuovo continente e Silvia mette in scena un campanón saltando tra i quattro angoli come se fossero le caselle del nostro celebre gioco popolare (ignoro se i bambini moderni conoscano e giochino ancora a campanón). Intanto con questo scherzo abbiamo messo un piede anche in New Mexico, Stato non previsto dal nostro itinerario!

Si riparte e si attraversa il confine con l’Arizona. Il paesaggio un po’ alla volta inizia a cambiare, le praterie lasciano il posto alle distese di sabbia, le montagne verdi alle dune giallastre e quindi ai monoliti rossicci. Arrivati a Kayenta prendiamo a nord verso il confine con lo Utah, dove sorge una delle zone più celebri di tutti gli Stati Uniti: la Monument Valley. Credo che nessun altro posto al mondo sia così strettamente legato all’immagine che di esso è stata data dal cinema. I film di John Ford come Ombre Rosse e Sentieri Selvaggi, interpretati da John Wayne, icona per eccellenza del cowboy americano, ma anche altri film più recenti, hanno lasciato in tutti noi un’immagine indelebile di queste rocce squadrate, rosse come il fuoco, che si ergono verticalmente dalla prateria riarsa dal sole.

È stato un tale Goulding a scoprire questa zona nei primi anni del novecento e a stabilire qui la propria attività. Intuendone le potenzialità scenografiche, riuscì a far venire in questi luoghi il grande John Ford, che se ne innamorò e iniziò ad utilizzare la valle per il set dei suoi film, decretandone il successo, anzi l’ingresso nella leggenda!

Probabilmente prima o poi qualcuno avrebbe comunque scoperto la vocazione turistica di questa vallata, ma non c’è dubbio che il suo fascino risieda sì nella bellezza dei monumenti naturali qui presenti, ma anche nell’immagine archetipica del west che ci è stata trasmessa attraverso il cinema.

Eravamo già stati qui in un viaggio precedente, ma il richiamo della Monument Valley è troppo forte e così siamo tornati. Risiederemo nel Goulding’s Lodge, edificato proprio sul sito dove Mr. Goulding aveva avviato la propria attività imprenditoriale un secolo fa e dove è ancora presente il camerino personale di John Wayne!

Nel pomeriggio partecipiamo ad un giro nella vallata, seduti sul cassone di un pickup ad impolverarci come antichi pionieri sui propri carri in marcia verso ovest. Alla guida del pickup un indiano Navajo (siamo nella più grande riserva degli Stati Uniti) che conduce il nostro mezzo attraverso piste sterrate e moooolto polverose, raccontandoci le storie della sua gente, descrivendoci le montagne dalle forme più singolari, indicandoci gli insediamenti umani tuttora presenti nella valle e le antiche testimonianze lasciate dagli antenati Anasazi sulle pareti di roccia rossa.

L’ultima tappa dell’escursione è la visita ad una vecchia Navajo ultra novantenne che, ci dicono, abita qui da sempre. Nel suo hogan (abitazione tradizionale fatta a forma di cupola) ci saluta e poi acconcia i capelli di una nostra compagna di gita alla maniera dei Navajo. Il tutto è molto commerciale ed evidentemente la nonnina recita la scena in cambio di congrua mancia, ma perché rovinare tutto con questa presa di coscienza razionale? Chiudiamo gli occhi e fingiamo di essere nel XIX secolo… Ecco, ora va meglio, siamo giovani indiani al cospetto della donna della medicina che ci incanta con le sue storie di spiriti maligni e dei rimedi che solo lei sa distillare dalle radici misteriose di alcuni arbusti e dal veleno dei serpenti.

Ringraziamo la nonnina, che non parla inglese ma i dollari li sa riconoscere, e ripartiamo con il nostro pickup per l’ultima galoppata sotto il sole morente. Avrei una gran voglia di entrare tutto impolverato in un saloon e, picchiando il pugno sul tavolo, gridare: WHISKY! Invece ci fiondiamo nella nostra comodissima camera d’albergo e ci facciamo una doccia leggendaria.

Ceniamo nel ristorante gestito dai Navajo e mangiamo Traditional Navajo Tacos, un miscuglio di cucina messicana e indiana niente male. Le porzioni qui, come d’altra parte in tutti gli States, sono anch’esse leggendarie!